(...) Il saggio, che si sofferma precipuamente sui testi L’eclissi di Dio e Il cammino dell’uomo, spazia tuttavia su un ampio arco di opere del filosofo, di cui, peraltro, addita la matrice biblica e offre una chiara e persuasiva sintesi, sottolineando la centralità del principio dialogico Ich-Du (coppia di relazione, Beziehung) la cui autenticità postula che si veda nell’altro il “tu” nella pronuncia del quale l’uomo completa il proprio io: un’autenticità che si realizza pienamente della relazione tra l’io e il tu-Dio, e a cui si contrappone quella falsamente dialogica, “malata” specialmente nel mondo moderno, in cui l’uomo è, per l’altro, soltanto un “esso” da strumentalizzare per i propri scopi. Analogamente ella puntualizza la distanza della prospettiva buberiana dalla duplice visione moderna che considera l’uomo in termini di “individuo” oppure – secondo il collettivismo – non vede che la “società”. Aggiunge che, per Buber, la relazione io-tu è ontologica nell’uomo, donde l’inquietudine dell’io che tende quasi spasmodicamente alla comunione: se egli oggi “fa fatica a dire tu è perché ha smarrito il proprio io” nel caos dell’egoismo, e il male è appunto il “non volersi dirigere verso l’incontro autentico”; solo “attraverso una virata di tutto il suo essere” egli trova “un cammino verso Dio”, cioè verso il compito particolare a cui Dio lo ha destinato: una virata di cui il pentimento è solo l’impulso che la fa scattare. E' naturale, quindi, che il primo capitolo sia dedicato a un approfondimento del problema del male “in relazione alla nostra esperienza di vita”, nella scia del volume di Buber Immagini del bene e del male ove il filosofo avverte che “la battaglia deve cominciare dalla nostra anima” (pensiero esplicitato da lui nel racconto Gog e Magog). E nel capitolo successivo si accampa, ovviamente, la definizione buberiana del male come “mancanza da parte dell’animo di direzione verso Dio”, in una con il riconoscimento della necessarietà dei due istinti nell’uomo, il “buono” e il “cattivo” (l’ardore del quale si può dirigere verso Dio se va incluso nell’amore di lui), “dati da Dio come suoi servitori” che “possono agire appieno soltanto in coppia”. alla “conversione” è consacrato il capitolo che segue, ove si ribadisce che “la mancanza di direzione è il male” (che non è realtà a se stante) e che è fondamentale per l’uomo la “vera coscienza di essere-inseritonel mondo” e del suo reale dialogo con Dio: la pienezza dell’io “socratico e goethiano”, e dell’io in relazione al tu eterno, la vita vissuta nella consapevolezza che a lui soltanto spetta la “decisione” configurano tale conversione dalla non-direzione al bene. (...)
...“L’amore è per Buber una realtà ontologica, è qualcosa che realmente accade nello spazio tra l’io e il tu”. Non senza, infine, invitare il lettore, riservandogli lo spazio di un una pagina bianca, a fissare qualche spunto per “guardarsi” con maggiore consapevolezza in vista della propria “direzione”. (....)
Concorrono alla validità ed originalità del saggio anche il particolare rilievo che assume il riscontro, additato dall’autrice, del pensiero dialogico buberiano nell’esigenza dell’umanità di superare l’attuale crisi antropologica e superare il nichilismo da cui è pervasa, e insieme la risonanza che esso suscita nel suo cuore con il profondo disagio di fronte a tale situazione; disagio che si manifesta in accenti commossi, riflesso di un’acuta sensibilità etica e di un correlativo moto di speranza per un’umanità “assetata di verità e ferita dal male che non riesce più a controllare”, alla luce del riconoscimento, insito nella filosofia buberiana, di un “sentiero possibile”, per il genere umano, atto a fargli superare “l’ora presente”, a ridare all’uomo la sua libertà di decidere vincendo il male e scegliendo il bene. Questa intima e sofferta partecipazione all’amara contezza buberiana dell’egemonia del male e alla correlativa speranza è uno dei tratti più caratteristici e suggestivi del saggio, che si fa apprezzare anche per l’onestà intellettuale, la coerenza metodologica, la chiarezza e il garbo della scrittura, a lei peculiare, nonché per l’ampiezza e puntualità del corredo bibliografico. in conclusione, mi pare doveroso significare a Maria De Carlo la gratitudine per il grande merito di aver offerto al lettore, con l’accattivante comunicatività del suo saggio, la possibilità di accostarsi agevolmente all’universo teoretico buberiano e di tesaurizzarne la nobiltà del messaggio etico con la sua carica solidaristica e la sua tensione verso l’eterno.